Le pagine di questo numero doppio di Nunatak incominciano, ancora una volta, parlando di migrazioni o, più precisamente, dei dispositivi di controllo che si stanno sperimentando sui nostri territori sulla scia dell’allarme sociale montato ad arte su questa presunta emergenza. È fondamentale incominciare con lo smontare l’allarme gridato ogni giorno dai mass media e dai politici di ogni schieramento che, sia pur con sfumature diverse, affermano all’unisono che siamo di fronte a un fenomeno migratorio dai caratteri eccezionali e che va dunque affrontato con misure emergenziali. Ma i numeri parlano chiaro: in Europa arrivano in realtà le “briciole” – nell’ordine di decine di migliaia di persone – delle masse che si spostano nel resto del mondo, milioni di persone che migrano all’interno degli stessi Paesi di provenienza o nei Paesi confinanti. Tali cifre dovrebbero bastare a ridicolizzare la canea mediatica che sta letteralmente bombardando e rincoglionendo i cittadini che si ostinano ad ascoltarla.
Detto questo, è necessario anche comprendere i meccanismi che stanno alla base del successo della campagna xenofoba in atto, che sta riuscendo nel gioco, antico come il Potere, del divide et impera, fomentando divisioni e paure nel tessuto sociale, in modo da scaricare il peso delle contraddizioni e dei conflitti sulle sue porzioni più deboli ed emarginate piuttosto che sui veri responsabili della situazione.
Si tratta di una frattura che ha radici profonde. In quanto cittadini dell’Occidente, siamo abituati ad avere un documento o un passaporto in tasca che fa di noi, quando ci spostiamo, dei turisti, dei viaggiatori, degli stranieri, e non dei migranti, dei profughi, dei richiedenti asilo. La piccola differenza che deriva da questo privilegio ha la tremenda conseguenza di creare uno scarto, un abisso, tra noi e loro, che contagia anche il nostro sguardo. Noi osserviamo, volenti o nolenti, da un punto di vista privilegiato, il che ci rende in qualche modo complici – proprio in quanto cittadini – degli Stati nazione in cui viviamo. Lo Stato – in cambio del nostro consenso o del nostro silenzio – ci dà o ci promette diritti e protezione, ci garantisce dal non diventare come loro, di non attraversare quell’abisso. È così che il migrante diventa l’incarnazione del nemico: da un lato perché minaccia, con la sua sola esistenza, per il fatto stesso di essersi mosso, il sistema delle frontiere e degli Stati nazione; dall’altro perché in lui, nella sua condizione di miseria e di precarietà, vediamo l’immagine di ciò che rischiamo di diventare, la china di quell’abisso in cui sentiamo continuamente di precipitare. E per evitarlo non abbiamo altra arma che affidarci allo Stato, alla forza con cui difende le frontiere del nostro stile di vita, uno stile reso possibile da nient’altro che lo sfruttamento coloniale del resto del mondo, in particolare quei Paesi da cui sfuggono i dannati della terra che premono sui nostri confini. E il cerchio si chiude.
Nonostante le capriole del linguaggio da cui siamo intossicati, infatti, un’invasione esiste eccome. È l’invasione dei capitali occidentali, delle banche e delle multinazionali, che stanno letteralmente spolpando interi Paesi e continenti nel cosiddetto Sud del mondo. L’agricoltura industriale tecnologicamente attrezzata – insieme al riscaldamento climatico di cui è per buona parte responsabile – sta letteralmente desertificando e rendendo invivibili porzioni immense di territori un tempo fertili e abitati. Lontano dalla patria, la retorica dello Stato nazione, della sovranità, del diritto, non va molto di moda: negli ultimi decenni non si contano le popolazioni spogliate delle loro risorse e delle loro terre, a colpi di guerre, bande paramilitari, terrorismo, dittature, racket mafiosi sovranazionali, che hanno spesso irrimediabilmente devastato i tessuti sociali di comunità che non avevano – e non hanno – alcun bisogno di essere “aiutati a casa loro”, avevano soltanto bisogno di essere lasciate in pace. Certo, spesso non manca la complicità di classi dirigenti e di gruppi di potere locali, anche perché quelli che non erano complici solitamente sono stati annientati.
La logica “coloniale” che disegna il nostro rapporto con la diversità incarnata dai migranti, oltre che le ragioni che li hanno costretti a emigrare, investe anche il nostro rapporto con il territorio in cui abitiamo. E non soltanto perché le Alpi (e altri territori “marginali”), come più volte abbiamo scritto in queste pagine, sono per molti versi amministrate come una colonia interna, saccheggiate, spopolate, omologate. La logica coloniale permea di sé, nel profondo, il rapporto che abbiamo instaurato con le risorse, con la terra, con le attività che vi svolgiamo.
Altri articoli di questo numero della rivista fanno emergere, seppur da prospettive differenti, la pervasività del marchio di fabbrica predatore e coloniale. Lo dimostra l’articolo che ricostruisce le origini dell’Alpine Club nella Gran Bretagna vittoriana, in cui emerge chiaramente il carattere “imperiale” del nascente alpinismo. Fu soltanto con l’affermarsi della borghesia, infatti, che l’idea di scalare montagne iniziò a presentare un’attrattiva che non aveva certo agli occhi dei contadini, ma neanche dei latifondisti o degli aristocratici. «Gli scalatori borghesi utilizzavano il linguaggio dell’esplorazione e dell’avventura, preso in prestito dalle contemporanee spedizioni in Africa e nell’Artico, per raccontare le loro imprese. Questo linguaggio trasformò la frequentazione di passi e vette alpine in una rappresentazione della virilità britannica e della conquista imperiale».
Ma è nell’articolo sull’agricoltura contadina, tratto dal libro di Silvia Pérez Vitoria, che emerge in tutta la sua devastante potenza la natura predatoria dell’atteggiamento che le società occidentali hanno instaurato con l’ambiente in cui viviamo. «Lo sviluppo è portatore di una logica infernale di crescita infinita che provoca una mercificazione generalizzata delle risorse naturali e delle relazioni sociali. Si appoggia sull’onnipotenza presunta della scienza e della tecnica, chiamate a risolvere tutti i problemi, e intende affermare la supremazia dell’Occidente e della sua razionalità su ogni altra cultura. È urgente uscire da questo modello che crea più problemi di quanti ne risolva».
Il razzismo, la guerra tra poveri, la diffidenza nei confronti dell’altro, non si vincono con gli slogan antirazzisti o i discorsi egualitari, si superano soltanto con la conoscenza reciproca a partire da percorsi di vita e di lotta comune. Pensiamo a quanto accaduto nell’Italia degli anni 50, 60 e 70. È nei quartieri, nelle fabbriche, nelle lotte vissute insieme, che si è rotto l’isolamento e la diffidenza nei confronti dei “meridionali”. Ma ci sono voluti decenni, e anche più, se pensiamo che negli anni Novanta è stata proprio la retorica antimeridionale ad accompagnare l’affermazione della Lega (quella stessa Lega che oggi urla “prima gli italiani”, a dimostrazione che il nemico non è altro che un capro espiatorio intercambiabile alla bisogna). Sono processi epocali, che richiedono tempo; investiranno generazioni, è inutile nasconderselo.
Oggi come allora, si tratta di contadini strappati ai propri territori rurali o montani e catapultati nei ghetti delle metropoli. Ma se fino a mezzo secolo fa questo esodo coincideva con il boom economico con tutte le sue illusioni, oggi l’illusione che possano essere l’industria, la tecnologia, l’automazione a liberarci dall’oppressione ha fatto miseramente il suo tempo.
Oggi, al contrario, nessun percorso di liberazione può pensare di fare a meno di basi materiali che consentano di far fronte alla dipendenza da un sistema produttivo e tecnologico che ci ha resi sempre più succubi e ricattabili.
Quello che manca oggi più di tutto è forse una prospettiva di lotta che non rimandi sempre a un lontano avvenire la possibilità di dotarsi di tempi e spazi di autonomia e liberazione, una capacità di mettere in atto forme di lotta praticabili nell’immediato, e al tempo stesso all’altezza dei bisogni imposti dalla gravità della situazione sociale.
Allora, forse, ancora una volta il primo passo da fare è quello di serrare le fila tra quanti già da ora, in un modo o nell’altro, di vallata in vallata, non sono disposti a omologarsi. Serrare le fila di un’ostilità concreta a quest’ordine, ogni giorno più aggressivo ed escludente, con cui si trovano o si troveranno a fare i conti tutte le istanze, non solo di cambiamento radicale, ma anche di semplice dissenso. Potranno anche essere banalità ormai sotto gli occhi di tutti, d’accordo, ma non ci pare che finora si siano trovate le forze per metterle davvero in pratica. È tempo di cominciare…