La montagna, ancora. Ora come un tempo pendii refrattari al passo dell’uomo, per quanto sportivo e attrezzato possa essere. Arriva la notte, arriva l’inverno anche per il più equipaggiato, arriva il limite, fisico, l’odioso limite fisico che l’ideologia no limits vorrebbe superato. Forse anche per questo scegliamo di restare in montagna, perché la concretezza, la naturalità di questo limite ci accompagni e ci guidi giorno per giorno. E perché, diciamocelo, ogni tanto ci piace giocare ad armi pari con ciò che distrugge, giorno per giorno, la vita, e la vita libera, sulla terra. Ma gli anni passano. Forse non avremmo immaginato che così presto avremmo visto in funzione sulle Alpi, e sui confini postici sopra dagli Stati, tutti gli armamentari che invece vi sono. Aerofotogrammetria, droni, rilevatori di calore. Polizie varie e di frontiera, alpini, chasseurs des Alpes. Controlli di ogni tipo, forestali, sanitari, chippatura delle greggi. Obbligo di accatastamento dei fabbricati rurali nel catasto urbano, per imporre l’IMU e le annesse gabelle ai più sperduti ricoveri e capanni, ruderi compresi. Intubamento di ogni più piccolo rio per produrre energia verde, privatizzazione dell’acqua, chiusura delle fontane. Cave, dighe, impianti, elettrodotti, infrastrutture. Intruppamento delle organizzazioni volontarie, disseminazione e isolamento degli immigrati in alberghi in disuso… Se la montagna resta un ambiente di relativa libertà, dove la conformazione stessa del territorio ne plasma, limita o facilita delle attività, oggi non abbiamo meno da fare che un tempo. Alla “isola felice”, d’altra parte, non abbiamo mai creduto, ma continuiamo a pensare che esista un modo diverso di stare al mondo e che qui, in montagna, ci sia la possibilità di sperimentarlo. La resistenza culturale, a cui anche cerchiamo di contribuire con questa rivista, pensiamo sia uno strumento indispensabile perché è la solida base da cui muovere le mosse qualsiasi cosa vogliamo fare nella vita di ogni giorno. Vita che vorremmo fosse sempre contraria a quella ordinata in base al denaro, alla merce, all’obbedienza. Ma non possiamo pretendere di più da una rivista, il suo compito finisce chiuse queste pagine. Sperimentare, correggere, realizzare sta a noi come a voi che leggete, altrimenti il nostro resterà solo esercizio di stile.
In questo numero parleremo ancora di rapporto con la natura e l’ambiente montano. Come la montagna e la sua conformazione abbiano determinato una diversa evoluzione del bosco e delle attività umane ad esso legate. I moderni macchinari, l’estrattivismo facilitato dall’abbandono e le leggi che danno loro la possibilità di primeggiare su altre attività rendendole non più remunerative, continuano ad attaccare la possibilità stessa di sussistere di queste stesse attività, dando in mano le risorse ai Capitali come dappertutto. Sta a noi avere, nei nostri progetti, un occhio di riguardo verso queste tendenze. D’altronde, a volte in montagna si gioca ad armi pari. Il rapporto con l’ambiente e il territorio da quando l’uomo si è organizzato in entità sovrane, è sempre stato attraversato da conflitti d’uso. E man mano che le organizzazioni sovrane si sono rinforzate (imperi, reami o stati), questo conflitto si è acuito, fino al punto di rottura dell’età moderna dove la montagna è stata in gran parte abbandonata dai suoi abitanti. Quello che non era riuscito per secoli, nel nostro “vecchio mondo” è successo d’un tratto e quasi volontariamente. Eppure i conflitti non sono finiti, anzi, e le montagne tornano ad essere appetibili, vuoi per le materie prime, vuoi per il loro sfruttamento turistico. E viverci sopra significa occuparsene. Ma ci sono anche altre dinamiche di cui la montagna è centro, suo malgrado. Nell’epocale, e per nulla “eccezionale”, flusso di persone che passa i valichi alpini, iniziano ad accumularsi varie esperienze. La valle della Roya, con la sua militarizzazione, gli accampamenti, la solidarietà spontanea degli abitanti e la repressione, ci deve servire nell’affrontare quello che ora succede in Val Susa e nel Brianzonese, nuovo punto di passaggio illegale. Nel frattempo, sono le evoluzioni normative nella questione migranti, le trappole della seconda accoglienza, a cambiare la situazione. Sulle forme della cosiddetta “accoglienza”, perfetto agone politico elettorale, tutti sono d’accordo quando questa garantisce, fronte alla crisi, l’abbassamento del costo della forza lavoro, bene scarso nell’Europa che invecchia. Allora anche in montagna bisogna chiedersi cosa è solidarietà, cosa è gentile aiuto, cosa invece è funzionale a meccanismi di sfruttamento: no, non tutti i migranti scappano dalla fame e dalla siccità. Molti sono anni che vanno avanti e indietro dalla frontiera per andare a lavorare di qua o di là a seconda della stagione. Sono i nuovi proletari/schiavi, resi ancor più ricattabili dalla “tirannia dei documenti” che coinvolge tanto chi non li ha quanto chi ha paura di perderli: più che per una questione di “razza” (qualcuno ancora ci crede), per una questione di “classe”. D’altronde è noto, per fare un ricco servono novantanove poveri. A chi comanda e tiene le redini del potere economico, fa ben comodo continuare a soffiare sull’odio perché questi novantanove poveri, ovunque siano nati o siano capitati, non si rendano conto che il nemico è comune. Il proliferare, non solo dei picchiatori in camicia nera ma di una ben più allarmante fascistizzazione della società, ne è una conseguenza a cui, anche nei nostri sperduti borghi d’altitudine, ci troviamo a dover fare fronte sempre più spesso. Mentre tutto questo succede intorno a noi, mentre siamo sempre intenti a cercare quali forme può avere il nostro stare in montagna, con le sue contraddizioni e limiti, ci affidiamo ancora una volta a questa nostra sorta di “messaggio nella bottiglia”, sperando di dare degli spunti utili e di continuare a riceverne.