EDITORIALE – Nunatak n. 50, primavera 2018

Tante sono le vicende che si stanno intrecciando di questi tempi, e non solo sui territori più vicini a noi geograficamente, stimolando le nostre riflessioni. In primis, fosse anche solo perché molto recenti, gli sviluppi della situazione sulla frontiera tra lo Stato italiano e quello francese, tra la Valsusa e il Brianzonese: ancora una volta, come già accaduto principalmente per il tratto di confine tra il ponente ligure e le Alpi marittime, lo spostamento di migliaia di persone ci passa di fronte a casa. E se già era difficile girare la faccia dall’altra parte, ora più che mai questo passaggio ci chiama in causa. Persone in fuga da guerre o in cerca di lavoro, persone in cammino, semplicemente, le cui storie di vita e di viaggio sono ingabbiate nella fredda lingua della statistica/logistica, per la quale non sono altro che «flussi migratori».
Fortunatamente, nel bel mezzo della grettezza dei nostri tempi, fioriscono da un versante all’altro delle Alpi anche esperienze di solidarietà e di concreto rifiuto delle diseguaglianze imposte dalla frontiera: quella stessa frontiera che, ben prima degli odierni passaggi, è stata sinonimo di sciagura per le genti di queste montagne.
Pienamente coerenti al loro ruolo storico di manovalanza sporca nei frangenti critici per l’ordine degli Stati, spuntano su queste montagne pure i fascisti, in questo caso dell’organizzazione transnazionale “Generazione Identitaria”, a coadiuvare, con abbondanza di riflettori, le divise a guardia della frontiera. Era dal 1945 che, a parte forse i campi paramilitari clandestini dell’eversione nera degli anni Settanta, non si vedeva su queste montagne una presenza spudorata di fascisti provenienti da mezza Europa: fosse anche solo per la circostanza della vicinanza temporale con il tanto celebrato 25 aprile, c’è di che fare ribollire il sangue perché i nostri vecchi non debbano vergognarsi di chi hanno lasciato al mondo.
Una buona risposta, al tempo stesso alle politiche di privilegio della fortezza Europa e all’invadenza fascista, è venuta il 22 aprile scorso quando in centinaia abbiamo forzato la frontiera per mettere in chiaro che la gente, da qualunque Paese provenga, da lì continuerà a passare e che i fascisti, ieri come oggi, da queste parti non avranno vita facile.
C’è ancora tanto da fare, gli identitarismi non sono affatto un fenomeno del passato e le frontiere restano, rafforzate di organici a loro difesa: la difesa degli interessi economici di alcuni, e dell’identità del popolino che sotto al vessillo della patria s’illude di essere qualcosa o qualcuno. Per una volta invece, non abbiamo visto aiutare paternalisticamente il “poveraccio” di turno, ma evidenziare il problema, comune a chi passa la frontiera ovunque sia nato, del confine come strumento di negazione della libertà e dell’autodeterminazione.
Tra frontiere, sovranità nazionale e tutto l’armamentario retorico della lingua degli Stati, il richiamo a un nazionalismo “dal pugno duro” fa sempre breccia nel cuore dell’opinione pubblica e quindi anche delle forze politiche che cavalcano gli umori di chi le vota. Basti pensare al polverone mediatico sollevato strumentalmente per un’operazione di controllo, per nulla straordinaria, da parte delle divise francesi nella stazione ferroviaria di Bardonecchia. Oppure, oltralpe, al “ristabilimento dello stato di diritto” su quel pezzetto di territorio autonomo che è diventata la ZAD di Notre-Dame-des-Landes, in Bretagna. Lo Stato francese unitario è stato fatto a discapito di Bretoni, Baschi, Corsi, Alsaziani, Occitani, Savoiardi, per non parlare delle ex-colonie d’oltreoceano facenti ora parte del territorio nazionale. La retorica della nazione non smette di giustificare un’unione fittizia che, ovviamente, non è mai simmetrica per entrambe le parti.

Per tornare alla nostra penisola, similarmente ricordiamo che il nazionalismo, prima ancora che preludio a politiche di aggressione coloniali e imperialiste ai danni di altri Paesi, è stato plasmato dai Savoia con la guerra al nemico interno: i contadini piemontesi e i montanari valdesi prima, le popolazioni del meridione e del resto della penisola e delle isole poi.

Se rivangassimo gli avvenimenti più taciuti, e quindi più dimenticati, del tanto osannato Stato-Nazione sotto cui viviamo, dagli albori della sua storia fino ai tempi recenti, è tutto un susseguirsi di misfatti che dovrebbero marcare in maniera decisamente altra l’immaginario culturale, l’atteggiamento verso l’autorità e verso un’idea di nazione costruita per gli interessi di chi comanda, fosse la monarchia o più tardi il regime repubblicano. Invece proprio il nazionalismo riesce a essere così coinvolgente e cameratesco da far sentire fratelli i propri oppressori, fin dall’istituzione della leva obbligatoria che mandava al massacro la carne da cannone “tanto per prova” (come disse Crispi per gli Alpini mandati a conquistare l’Etiopia).
Che tristezza allora vedere la simpatia per il corpo militare degli Alpini tanto radicata nei nostri territori quando ha significato una sciagura immane per le generazioni di montanari annullati nel Primo Macello Mondiale, nelle aggressioni belliche ai danni di Russia, Balcani, Grecia, Etiopia, Libia, sulle mappe di quello che un celebre bolscevico definì «l’imperialismo degli straccioni». Imperialismo che si rinnova oggi nelle guerre sfacciatamente soprannominate umanitarie, ma che non possono nascondere con questo nome la rapina delle risorse necessarie ad alimentare il bulimico sistema capitalista e consumista. Sistema a cui il corpo degli Alpini non fa mai mancare i propri servigi.

Se la memoria per tali avvenimenti vacilla, figuriamoci per altre meno tragiche vicende. Non ci discostiamo poi di tanto, parlando di Olimpiadi: anche qui la retorica nazionalista, la superiorità dell’atleta o della squadra di questa o quella nazione (dove molti degli atleti sono arruolati in un corpo militare), bandiere e inni sono il fondamento della kermesse. Tale è la potenza di questo spettacolo che nonostante gli scempi, gli sprechi, la militarizzazione, le gravose eredità delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, le montagne piemontesi sono nuovamente candidate. Ci toccherà tornare a rivedere tra meno di dieci anni folle esultanti sotto le bandiere dello sponsor di turno?

Di alcune tra le vicende che abbiamo qui elencato troverete più marcate tracce tra le pagine di questo numero della rivista: legna da buttare sul fuoco per cercare di comprendere e quindi intervenire su quanto accadrà nei tempi a venire.