EDITORIALE – Nunatak n. 48, autunno 2017

INDIPENZA, AUTODETERMINAZIONE, AUTONOMIA…

Sull’onda delle recenti consultazioni svoltesi in Catalunya, nel Kurdistan iracheno e (in tutt’altro scenario) in Lombardia e Veneto, nelle ultime settimane il tema dell’indipendenza nazionale ha suscitato un particolare clamore mediatico. Per la redazione di questa rivista, i concetti di autodeterminazione, indipendenza, autonomia, sono da sempre temi ricorrenti, talvolta affrontati in modo esplicito, più spesso tra le righe, “sottotraccia”; l’occasione ci spinge oggi a provare ad affrontarli “di petto”, con questo editoriale “speciale”, più lungo del solito.Benché diversissimi tra loro, questi tre referendum sono nati da istanze che hanno in comune, perlomeno sulla carta, un conflitto di natura “territoriale”, ovvero uno scontro tra realtà locali e potere centrale.
Lo Stato nazione moderno si fonda proprio sullo spossessamento delle comunità locali, con la conseguente demolizione del loro bagaglio di saperi, di autonomia, di linguaggi… Un processo di sradicamento e di omologazione che mira a rompere ogni legame di solidarietà “tradizionale” (di villaggio, famigliare, clanico), per disgregare le comunità e ridurle a una massa di individui soli, isolati, deterritorializzati e intercambiabili, tutti uguali in quanto ugualmente sfruttabili. È di fronte al trionfo della merce, vero Dio in terra in un mondo disincantato, che tutti gli uomini diventano uguali. Uno slogan egualitario si è tramutato in incubo totalitario.
Comune tanto all’ideologia della borghesia liberale quanto al sogno universalista del proletariato, lo slogan «gli uomini son tutti uguali» è senz’altro carico di pathos retorico, ma nasconde il fatto che gli uomini saranno forse tutti uguali davanti a Dio, per chi ci crede, lo sono sicuramente, in astratto, davanti alla Legge e al Denaro, ma non lo sono affatto, fortunatamente, tra di loro.
Accanto a certe caratteristiche condivise da tutti gli esseri umani e ad altre proprie di ciascun individuo ne compaiono alcune comuni a una determinata parte dell’umanità. Oltre alle divisioni in generi e in generazioni, e accanto alle divisioni di classe, esistono divisioni che si possono definire “etniche”, che racchiudono caratteristiche culturali, linguistiche, territoriali, ecc.
Tali caratteristiche, e le identità che ne discendono, non sono un marchio fisso e immutabile: non soltanto l’umanità nel suo insieme, ma tutti noi individualmente siamo attraversati da una molteplicità di appartenenze, noi stessi siamo la somma di più identità sovrapposte e intrecciate. Questo intreccio, instabile e aperto, è ciò che costituisce l’essenza di ogni individuo e di ogni comunità, ed è ciò che ne rappresenta la ricchezza e la garanzia di forza e di vitalità.
Tra queste, l’insediamento in un determinato territorio è una caratteristica ineliminabile, che segna nel profondo gli individui e le comunità umane, attraverso un groviglio di peculiarità culturali, di lingue e immaginari, di miti e memorie di tempi ancestrali. Questo senso di appartenenza territoriale c’è, è un fatto, un’identità che ci attraversa insieme a tutte le altre, e proprio il suo periodico risorgere nonostante tutti i tentativi di assimilazione e di omologazione è lì a dimostrarlo. La globalizzazione capitalista, lungi dal rendere obsolete le rivendicazioni di tipo etnico, sta dando loro sempre più vitalità. Il loro rinnovato protagonismo è sotto gli occhi di tutti: fare di loro una ricchezza e un baluardo di libertà, oppure un’occasione di chiusura e di guerra fratricida, è la sfida che ci attende.
La sua negazione rappresenta uno strumento di umiliazione dell’individuo e delle collettività, un tentativo di indebolirle per sottometterle inculcando in loro un senso di inferiorità e subalternità nei confronti della cultura dominante, quella della classe dominante. Le forme di resistenza locale all’oppressione centralista dello Stato, per quanto certo progressismo si ostini a screditarle in quanto “conservatrici”, non hanno nulla, di per sé, di “reazionario” o di “retrogrado”. Tutto dipende dalle modalità e dalle finalità con cui vengono utilizzate e dalle forze che se ne fanno portatrici.
Quando è uno Stato, già esistente oppure in formazione, che utilizza tali istanze per i propri interessi (ovvero quelli della classe di cui è espressione), esse non potranno che divenire strumenti di accentramento e di controllo sociale, di chiusure identitarie, e di politiche più o meno oppressive anche nei confronti di altri popoli o minoranze, fino al razzismo e a derive genocide.
Nella prospettiva di un movimento di liberazione, al contrario, l’affermazione della propria autonomia e la difesa della propria diversità – nel loro intrecciarsi con i conflitti di classe – costituiranno una trincea di resistenza, un’occasione di riscossa e uno strumento di emancipazione. Il rapporto con le altre comunità etniche, alleate e non nemiche, sarà aperto e solidale, un’opportunità di confronto e di arricchimento reciproco, nella prospettiva di una unione nella diversità.
Negare queste diversità, in nome di un’astratta uguaglianza o dell’idea che la lotta di classe sia l’unico motore della storia, significa consegnarle alle peggiori forze reazionarie e condannarle a trasformarsi in rancore e odio per il diverso. È ciò che è avvenuto in Italia, in particolare nelle campagne e nelle montagne, dove il tessuto sociale fondato sulla struttura familiare della piccola proprietà contadina è stato sostanzialmente monopolizzato dalla propaganda leghista e cattolica. Mentre a sinistra, una visione economicista e progressista della storia persiste nell’alimentare diffidenza e ostilità per tutto ciò che sa di “locale” o “identitario”, residui arcaici da relegare nell’oblio o tutt’al più nel folklore. Il fatto che le differenze “etniche” siano sovente strumentalizzate dalle classi dominanti per dividere tra loro gli sfruttati, è divenuto il pretesto per tacitarle, quasi fossero una invenzione dei padroni.
Ma la consapevolezza e la rivendicazione delle proprie radici non è la causa delle chiusure identitarie contro immigrati e stranieri. Al contrario, è quasi sempre proprio la perdita del legame con la propria terra e cultura a produrre quel senso di paura e precarietà che viene strumentalizzato per fomentare la guerra tra poveri. Chi sa chi è e da dove viene non ha paura dell’incontro con l’altro né della contaminazione, anzi; è proprio nello sradicamento e nell’insicurezza che germoglia il timore di perdere quel che già non si ha più, e che una rabbia giusta viene incanalata contro il bersaglio sbagliato. A conferma di ciò, non è un caso che la paura del diverso e dello straniero sia il discorso politico prevalente nella “Padania”, dove questo malcontento negli ultimi decenni è stato lasciato in mano alla Lega, mentre in Catalunya, territorio “indipendentista” e perciò bollato dalla propaganda come esempio di chiusura localista, l’atteggiamento nei confronti degli stranieri sia molto più saggio e aperto non solo rispetto alla “Padania” ma a qualsiasi altro Stato democratico d’Europa.

In Catalunya, la cronaca degli eventi dovrebbe essere abbastanza nota. Negli ultimi anni le istanze indipendentiste catalane sono andate affermandosi in un crescendo per lo più fomentato dalle chiusure dello Stato spagnolo, fino al noto referendum dell’1 ottobre e alla reazione poliziesca e repressiva di Madrid, che ha portato in carcere o in esilio diversi attivisti e ministri catalani e alla destituzione e commissariamento del governo di Barcellona.
In Europa, nel mondo della politica “tradizionale”, ovvero nei resti sparsi della destra come della sinistra (sia parlamentare che extra) nullismo e indecisione regnano sovrani. Di fronte a un conflitto che non si riesce facilmente a inscatolare negli angusti meandri dei loro schemi mentali, non resta che una fiera delle banalità, per lo più equivalenti tra loro: tutti per la democrazia, per la legalità, per la non violenza, et voilà. Oppure, per la sinistra più sinistra, il conflitto è squalificato in partenza trattandosi di una questione nazionalista e non di una lotta di classe come si deve.
Da parte nostra non vogliamo dire che le cose sono semplici e lineari, tutt’altro. Ma nonostante la complessità, dei punti fermi li abbiamo eccome: il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano, come quello di tutti i popoli, è per noi fuori discussione. In un conflitto tra Stato centrale e autonomia locale, noi abbiamo più che chiaro da che parte stare.
Il fatto che le forme in cui questa istanza cerca di concretizzarsi rischino di riprodurre forme istituzionali da cui dovrebbero liberarsi, non è certo un motivo sufficiente per guardare con distacco o indifferenza a questo conflitto. Il fatto che il movimento indipendentista catalano sia un coacervo di forze e interessi diversi, con tutte le confusioni e contraddizioni che ne conseguono, è perfettamente normale: è espressione della società catalana con tutte le sue contraddizioni. Quello che crediamo importante sottolineare è che è proprio all’interno di percorsi di lotta per l’autonomia, di momenti di conflittualità e rottura contro l’occupante spagnolo, che anche i nodi interni alla società catalana – i conflitti di classe – potranno trovare la loro espressione. Lotta di classe e lotta di liberazione “nazionale” non sono due alternative separate, ma percorsi che si intrecciano e alimentano a vicenda.
Il fatto di vedere la gente in strada scontrarsi con la polizia per difendere delle urne, può sembrare certo un po’ assurdo per chi ha ben chiaro che non è a colpi di referendum che potranno mai decidersi cambiamenti radicali. Ma al tempo stesso non si può non riconoscere quanto sia proprio in situazioni del genere che si svela il vero volto della democrazia: la polizia antisommossa che carica per sequestrare le urne e impedire ai cittadini di votare è una scena che spiega il ruolo dello Stato molto meglio di mille nostri opuscoli o volantini.
Possiamo fare tutte le critiche che vogliamo al progetto di un nuovo Stato catalano, possiamo – e dobbiamo – sottolinearne i limiti e le contraddizioni. Ma, lì come altrove, ciò non si può fare commentandoli dall’alto, ma soltanto stando dentro ai processi di rottura. Un processo in cui, comunque, da una parte c’è un popolo che rivendica autonomia e dall’altra c’è uno Stato oppressore assassino e torturatore che vuole perpetrare uno status di occupazione coloniale. Non è pensabile, a nostro avviso, che la coerenza o la purezza della teoria o dell’idea siano il pretesto per un atteggiamento di indifferenza o di equidistanza, che porta di fatto a equiparare oppressi e oppressori, visto che la rivoluzione non si presenta bella e pronta così come la si era sognata.

Un endemico atteggiamento di superiorità porta solitamente a considerare “arretrati” i Paesi che non appartengono al “mondo occidentale”; una sorta di eurocentrismo che ha davvero del ridicolo se pensiamo che la Mesopotamia – come studiamo a scuola elementare – costituisce nel bene e nel male la “culla della civiltà” per come oggi la conosciamo. Se riuscissimo a liberarcene potremmo cogliere il carattere universale e paradigmatico di quanto sta accadendo oggi in Medio Oriente. A ben guardare, infatti, i veri laboratori di alternativa, sia da un punto di vista pratico che teorico, sono oggi dappertutto fuorché in Occidente; ennesima riprova del tramonto della civiltà occidentale e del declino di una fase storica di lungo periodo. Le recenti vicende mediorientali, nello specifico in Kurdistan, mostrano oggi nel contempo i fallimenti di una prospettiva di indipendenza in un’ottica statalista e, viceversa, la praticabilità di percorsi di liberazione senza Stato.
Pur in uno scenario incomparabile con l’Europa, anche in Iraq l’esito della dichiarazione di indipendenza pronunciata dal Governo regionale del Kurdistan, in seguito al risultato plebiscitario del referendum promosso dal presidente Massud Barzani, è stato un fallimento totale: occupazione militare di Kirkuk e dei territori contesi, morti, sfollati, dimissioni di Barzani e rientro nei ranghi. La reazione del governo centrale di Baghdad per stroncare sul nascere la secessione è stata immediata, sostenuta da tutte le potenze dell’area (normalmente rivali), dalla Turchia all’Iran.
Agli Stati che si spartiscono il Kurdistan, infatti, fa comodo che il proprio vicino abbia al suo interno una minoranza curda, abbastanza grande da rappresentare una costante minaccia destabilizzatrice, ma non tanto da minacciare anche le frontiere di casa propria. L’identità curda rappresenta un utile strumento di ricatto reciproco, eredità del metodo di governo coloniale, una pedina valida finché i curdi lottano in casa altrui, da eliminare quando iniziano a “sconfinare” e a non seguire più le regole del gioco.
La concezione di “liberazione nazionale” del partito di Barzani è fondata sulla crescita economica e capitalistica, sulla vendita “indipendente” del petrolio, gli hotel di lusso, la cementificazione, i centri commerciali, con il contemporaneo rafforzamento delle frontiere e, con esse, dell’oppressione degli altri curdi di Turchia, Siria e Iran. Strumentalizzando il legittimo sentimento indipendentista della popolazione curda d’Iraq, il clan che governa il “Kurdistan iracheno” cerca di ritagliarsi il proprio spazio all’interno del sistema degli Stati nazione e dell’ordine capitalista globale. Appoggiato dagli Stati Uniti e da Israele, sostenuto dagli stretti rapporti economici con la Turchia, sancisce così il proprio ruolo di utile pedina nelle mani delle potenze regionali e internazionali.
Ma «l’essenza dello Stato – come afferma Duran Kalkan, uno dei fondatori e comandante del PKK – sta nell’essere una forza organizzata per la repressione e lo sfruttamento. Lo Stato è un sistema, essere Stato significa fare parte del sistema; e ciò comporta dipendenza e collaborazione. Piccoli Stati dipendono da Stati più grandi, e tutti dipendono dal sistema statale. È assolutamente certo che uno Stato non può essere libero e indipendente; nel paradigma statalista non c’è spazio per l’indipendenza e la libertà. Soltanto le società, con una libera e indipendente consapevolezza, possono essere davvero libere e indipendenti…».
L’esperimento in atto in Rojava, nel Kurdistan siriano, dimostra la praticabilità di un’alternativa non statale. Sulla base, pratica e ideologica, elaborata dal PKK e da Abdullah Ocalan, vi si persegue l’autogoverno dal basso delle comunità locali, federate tra loro in un sistema che travalica le frontiere statali, etniche e religiose, rifiutando l’istituzione di nuovi confini e di un nuovo Stato, in quanto intimamente oppressivo ed egemonico e fonte di ulteriore balcanizzazione e guerre fratricide. Obiettivo del “confederalismo democratico” (letteralmente confederazione di popoli e non di Stati) è rompere radicalmente con il meccanismo neocoloniale di spartizione del Medio Oriente e sottrarre il popolo curdo dal ruolo di pedina nel gioco delle rivalità tra potenze egemoni. Non a caso il PKK rimane nella lista delle organizzazioni terroristiche e il Rojava non gode di alcun sostegno né riconoscimento, ma di un embargo da tutti i lati, compreso dal Kurdistan iracheno.
I cantoni confederati del Rojava, rispetto al Governo regionale del Kurdistan d’Iraq, dimostra inoltre la sua efficacia pratica, anteponendo il rafforzamento delle strutture di autogoverno di base piuttosto che il formalismo della loro proclamazione. Le dichiarazioni unilaterali di indipendenza, con tanto di referendum e dunque con l’obiettivo di una legittimazione sul piano del diritto internazionale, hanno invece mostrato, tanto in Iraq quanto in Catalunya, la loro vacuità in assenza di una forza materiale, e militare, in grado di difenderle dall’inevitabile repressione statale (a ennesima riprova di come il diritto sia da sempre una conseguenza della forza, e non certo il contrario).
L’istituzione dello Stato ha talmente condizionato i nostri modelli di pensiero da renderci incapaci di concepire un sistema alternativo. Eppure, i cantoni di Rojava, nonostante gli inevitabili limiti, mostrano un promettente esempio di come possano evolvere strutture autodeterminate che trovano in se stesse il fondamento e la garanzia della propria indipendenza e autonomia.
«Indubbiamente, la condizione senza Stato di intere comunità è posta in una condizione di vulnerabilità in un sistema che nega ogni altra forma di vita e riconosce soltanto quelle forme di potere istituzionalizzate denominate Stati. I curdi lo sanno perfettamente. Il problema è lo Stato, non la sua assenza. Ripudiarlo non significa affatto arrendersi, in quanto il termine “Stato” non va affatto confuso con i termini “autonomia”, “libertà” o “indipendenza”» (Dilar Dirik).

Per noialtri, quindi, l’abbattimento della società di classe e dello Stato che ne è espressione, fa rima inevitabilmente con l’autogoverno delle bioregioni, con la riscoperta di quelle autonomie locali soppiantate nei secoli dal centralismo dagli Stati nazione. Nel profondo delle identità locali, che più vengono negate e schiacciate più tornano e torneranno alla ribalta, c’è un bagaglio aperto di potenzialità, un arsenale in cui coesistono spinte diverse, spesso contrastanti, confuse e contraddittorie, proprio come la società e il territorio di cui sono espressione. È così, semplicemente, perché la tradizione è una cosa viva, non un pezzo da museo. Possiamo servircene, farla nostra, viverla, valorizzandone gli aspetti di solidarietà e di mutuo appoggio, di ribellione e di autonomia, o in alternativa possiamo consegnarla a chi, per interessi opposti, ne esalterà gli aspetti più retrogradi, bigotti, patriarcali che pure ci sono, è bene non nasconderselo. L’esempio del PKK è illuminante: pur fondandosi sull’identità curda e sulla sua difesa, è implacabile contro i suoi aspetti patriarcali e oppressivi. L’identità locale infatti – è questo il grande imbroglio da sciogliere – non è un pacchetto preconfezionato da prendere o lasciare, essa ci determina almeno quanto noi contribuiamo a determinarla. La tradizione è al tempo stesso un arsenale e un campo di battaglia, in perenne trasformazione a seconda dei rapporti di forza tra gli attori in campo. Abbandonare quel campo vuol dire firmare la propria sconfitta.
Allo stesso modo, la rivoluzione non è un qualcosa da realizzare, un momento di là da venire. Essa è un movimento continuo, con accelerazioni e riflussi e rotture, certo, ma pur sempre un processo di lungo periodo. Un processo che è in corso, qui e ora, e di cui la disgregazione dell’ordine imperiale in Medio oriente e l’inizio dello sfaldamento nel cuore dell’Europa sono sintomi importanti. Per questo allo Stato spagnolo fa così paura il secessionismo dei catalani. Per questo nessuno Stato d’Europa ha sostenuto il percorso della Catalunya verso l’indipendenza. Lo scenario di una disgregazione dall’interno dell’Unione europea è tutt’altro che una possibilità remota, ed è evidente che gli Stati, con tutti i loro apparati, burocrazie, privilegi, sentano scricchiolare la terra sotto i piedi vedendo vacillare i loro sacri confini. Tanto più che ciò avviene in un momento in cui dall’esterno aumenta la pressione di quelle masse di umanità in eccesso spinte a emigrare da guerre, miserie e iniquità che portano il marchio inequivocabile degli Stati Uniti e dell’Unione europea, con i loro traffici d’armi, il loro saccheggio di terre e risorse, le loro guerre per procura. Ora che soltanto la fuga è rimasta all’orizzonte per tanti, l’Europa mostra il suo vero volto razzista e assassino dispiegando per terra e per mare una vera e propria guerra contro i migranti la cui meschinità grida vendetta nel glaciale silenzio dell’opinione pubblica. Mentre i gendarmi blindano le frontiere e le navi da guerra pattugliano il Mediterraneo, il vero controllo dei confini, negli snodi cruciali delle tratte migratorie, viene appaltato – in un osceno gioco delle parti – a chi può infischiarsene dei vuoti slogan sui diritti umani: miliziani neonazisti in Bulgaria, tribù, gruppi jihadisti e mercanti di schiavi nel deserto libico, paramilitari e jandarma in Turchia. Le frontiere dell’Europa sono sprofondate, in Africa, in Medio Oriente, garantite da bande armate, muri, lager, stupri, stragi, lontano dagli occhi di chi non vuol vedere il prezzo dei propri privilegi nella patria della «democrazia» e dei «diritti dell’uomo», un genocidio quotidiano senza il quale l’Europa si sarebbe già da tempo sgretolata sotto il peso della propria iniquità.
È questa l’Unione europea di cui dovremmo temere il crollo? Che affondi negli abissi questo mostro chiamato Europa! Che crepi per sempre il maledetto Stato spagnolo! Che crepino con lui la Francia, l’Italia e tutti gli altri, con le loro maledette frontiere, banche e divise… E che sulle loro macerie germogli un giorno il sogno, al tempo stesso antico ed attuale, di una federazione di popoli liberi!